Se, nella sua famosa lettera, Pier Luigi Celli invitava suo figlio ad
andarsene dall’Italia, io sarò più radicale: io non voglio più essere
italiano.
Be’, direte: e chi se ne frega? Problema tuo, no? Forse, ma per
esserne sicuri credo se ne debba parlare per il semplice fatto che
questa mia tesi presuppone una domanda che potrebbe riguardare una
platea più ampia: perché dovrei esserlo? Perché dovrei essere italiano?
Perché dovresti essere italiano?
Iniziare un discorso da una condizione soggettiva è sempre molto
pericoloso. Le possibilità di essere vilipeso, sbeffeggiato,
“satirizzato”, “ironizzato” sono altissime, e forse anche
legittimamente. Tuttavia, siccome mi è concesso questo privilegio di
poter scrivere su questo mezzo, correrò i miei rischi.
Il sociologo francese Pierre Bourdieu, nelle “Meditazioni
pascaliane”, consigliava di dichiarare il proprio punto di vista prima
di esporre qualunque tesi. Ben detto, ed ecco qua il mio punto di vista:
nel mio personale “romanzo di formazione” il concetto di “italianità”,
così come quello di “Nazione”, “Patria”, “Identità”, hanno sempre avuto
un ruolo marginale se non nullo. Diciamo che il mio trovarmi qui “per
caso” ha fatto e fa di me un cittadino formalmente italiano, ma nulla di
più. Diciamo che, per utilizzare un termine desueto e che farà irritare
molti, mi sono sempre sentito “internazionalista” o, per essere
contemporanei, “globalista”, nonché “cosmopolita”.
Poi, come per ognuno di noi, piano piano si è maturati, cresciuti, si
è andati a lavorare, si sono fatte esperienze esistenziali, culturali
e, perché no, burocratiche. Insomma, si è vissuto dialogando
quotidianamente con la realtà che ci si presentava di fronte, a volte
subendola a volte plasmandola. Banale, esperienza comune a tutti noi,
certo. La vita, nulla di più, nulla di meno. O forse no, non poi così
banale. La vita vissuta in un contesto, la vita vissuta in determinate
condizioni oggettive, ossia, nel nostro caso, l’Italia così come si è
evoluta e come è cambiata negli anni e che cosa è oggi.
Bene, a me l’Italia di oggi fa letteralmente schifo. Sì, schifo
proprio. Consapevolmente schifo, per cui tale consapevolezza non può che
farmi trarre le necessarie conseguenze dal mio “romanzo di formazione”:
non voglio più essere italiano, per cui chiedo al Presidente della
Repubblica Giorgio Napolitano di togliermi la cittadinanza italiana,
perché io non sono più un italiano.
L’Italia è un paese fondato sui clan, le famiglie, le cordate, il
disastro burocratico, l’inefficienza tecnologica, il dissesto
idrogeologico, l’obsolescenza delle infrastrutture, la criminalità
organizzata, la truffa politica come questi referendum che faranno la
fine della famosa legge sul finanziamento pubblico dei partiti, il non
mantenere mai la parola data, l’abbandono delle forze dell’ordine,
l’evasione fiscale, il banditismo in ogni settore pubblico e privato, il
ricatto, l’estorsione, il pettegolezzo, la distruzione della scuola
pubblica in ogni sua forma, l’abbandono dei nostri beni culturali,
l’ingessatura del mondo del lavoro, il precariato straccione, un
cattolicesimo reazionario, l’inganno agli immigrati, un sindacato
ottocentesco, dei partiti (sinistra e destra) impresentabili, vecchi,
logori, sfiancati, un nepotismo sfrenato in ogni settore pubblico e
privato, e potrei continuare per pagine e pagine.
Bene, se questa è oggi l’Italia io non sono un italiano, mi fa schifo
esserlo, me ne vergogno e non lo voglio più essere e chiedo a ognuno di
voi perché vuole essere italiano, non perché lo è “per caso”. Perché
oggi, nelle condizioni date dell’Italia contemporanea, un cittadino
italiano vuole continuare a definirsi tale?
Spiegatemelo.
FonteSfogo e riflessione di un Italiano
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